apicoltori e poeti
Vincenzo Monti
Le Api Panacridi in Alvisopoli
Quest’aureo miele etereo,
su’l timo e le viole
dell’aprica Alvisopoli
còlto al levar del sole,
noi caste Api Panacridi
rechiamo al porporino
tuo labbro, augusto pargolo,
erede di Qurino;
noi del tonante Egioco
famose un dí nutrici,
quando vagìa fra i cembali
su le dittèe pendici.
Mercé di questo ei vivere
vita immortal ne diede,
e ovunque i fior più ridono
portar la cerea sede.
Volammo in Pilo; e a Nestore
fluîr di miele i rivi,
ond’ei parlando l’anime
molcea de’ regi achivi.
Ne vide Ilisso; e il nèttare
quivi per noi stillato
fuse de’ Numi il liquido
sermon sul labbro a Plato.
N’ebbe l’Ismeno; e Pindaro
suonar di Dirce i versi
fe’ per la polve olimpica
del nostro dolce aspersi.
E nostro è pur l’ambrosio
odor che spira il canto
del caro all’Api e a Cesare
cigno gentil di Manto.
Invïolate e libere
di lido errando in lido,
del bel Lemène al margine
alfin ponemmo il nido.
E di novello popolo
al buon desío pietose,
de’ più bei fiori il calice
suggendo industrïose,
quest’aureo miele etereo
cogliemmo al porporino
tuo labbro, augusto pargolo,
erede di Quirino.
Celeste è il cibo; e, simbolo
d’alto regal consiglio,
con piú felice auspizio
l’ape successe al giglio;
ché noi parlante immagine
siam di re prode e degno,
e mente abbiamo ed indole
guerriera e nata al regno.
Il favo, che sul vergine
tuo labbricciuol si spande,
in te sia dunque augurio
di sir prestante e grande.
E lo sarai; ché vivida
le fibre tue commove
l’aura di tal magnanimo
che su la terra è Giove.
Ma d’uguagliar del patrio
valor le prove e il volo
poni la speme: il massimo
che ti diè vita è solo.
L’imita; e basti. Oh fulgida
stella! Oh sospir di cento
avventurosi popoli!
Del padre alto incremento!
Cresci, e t’ avvezza impavido
con lui dell’orbe al pondo:
ei l’Atlante, tu l’Ercole;
ei primo, e tu secondo.
D’un guardo allor sorridere
degna al terren, che questo
ti manda iblèo munuscolo,
offeritor modesto.
Su quelle sponde industria
una città già crea
cara a Minerva; e sentono
già scossi i cuor la dea.
Natura ivi spontanea
i suoi tesor comparte
ed operosa e dedala
più che natura è l’arte.
Le prezïose e candide
lane d’ibera agnella
pianta rival dell’indaco
d’un vivo azzurro abbella.
La forosetta i morbidi
velli all’egizia noce
tragge; e ne storna l’opera
amor, che rio la cuoce;
amor del caro giovine,
che del paterno campo
i solchi lascia e intrepido
vola dell’armi al lampo,
e seguirà la folgore
che adulto fra le squadre
tu vibrerai, se a vincere
nulla ti lascia il padre.
Ma di Gradivo agl’impeti
l’alme virtú sien freno,
che all’adorata informano
tua genitrice il seno.
Germe divin, comincia
a ravvisarla al riso,
ai baci, ai vezzi, al giubilo
che le balena in viso.
La collocâr benefici
sul maggior trono i numi.
Ridi alla madre, o tenero;
apri, o leggiadro, i lumi.
Ve’ che festanti esultano
alla tua culla intorno
le cose tutte, e limpido
il sol n’addoppia il giorno.
Suonar d’allegri cantici
odi la valle e il monte,
sussurar freschi i zefiri,
dolce garrir la fonte.
Stille d’eletto balsamo
sudan le quercie annose:
ogni sentier s’imporpora
di mammolette e rose.
Tale il sacro incunabolo
fioría di Giove in Ida:
ed ei, crescendo al sonito
di rauchi bronzi e grida,
rompea le fasce; e all’etere
spinto il viril pensiero,
già meditava il fulmine,
signor del mondo intero.
Da Il bardo della selva nera, Canto V
(…)
Con severa bilancia ripartito
regola il carco che la patria impone;
frange i ceppi al commercio che fiorito
l’arti risveglia, a cui la pace è sprone.
Per le vie, per le case al dolce invito
l’industria ferve: ogni squallor depone
il già cangiato Egitto, e sente a prova
la presenza del Dio che lo rinnova.
Vita di tutto Ei tutto osserva, e saggio
dispon dell’opra il mezzo e la maniera.
Tale il re delle pecchie(*), allor che il raggio
del monton sveglia l’alma primavera,
a riparar del rio verno l’omaggio
desta al lavor del miele e della cera
l’industri ancelle, e, osservator severo,
le fatiche ne scorre e il magistero.
Altre intendono ai favi, altre la manna
van de’ fiori a predar cupide e snelle.
Qual le compagne a scaricar s’affanna,
qual del dolce licore empie le celle.
Queste, tratti i pungigli, la tiranna
torma de’ fuchi caccian lungi; e quelle
castigano le pigre. Un odor n’esce
che ti ristaura, e il lavorìo più cresce.
Con infinita provvidenza il senno
de’ suoi sofi comparte il sommo Duce.
Altri l’ombra del punto fissar denno,
che rompe all’arco meridian la luce.
Altri i portenti investigar, che fenno
chiaro l’Egitto, ovunque ne traluce
l’orma ancor maestosa, alla cui vista
il pensiero stupisce, e il cor s’attrista.