articoli e traduzioni di apicoltura
Apicoltura, sviluppo industriale ed ambiente: cosa sta succedendo in America? Parte seconda
di Gabriele Milli
Uscito in Apitalia
Nella prima parte di questo articolo avevamo visto come l’American Bee Journal, con una serie di interventi a firma di Carl J. Wenning, si stia impegnando su una forte campagna per la riduzione, se non l’eliminazione dell’uso di antibiotici e pesticidi in apicoltura. Lo slogan è “RCB: reduced chemical beekeeping”, (fare apicoltura con un ridotto uso della chimica) e il fine è promuovere o ricercare pratiche apistiche che non producano microevoluzione di qualsiasi agente patogeno e della stessa ape, poiché il meccanismo a spirale di trattamenti, resistenza, trattamenti sempre più potenti, ecc., non ha altro esito se non la distruzione dell’apicoltura. Avevamo visto che è una novità assolutamente impensabile fino a pochissimo tempo fa nella cultura dell’establishment medio americano, ed è il risultato della presa d’atto di una situazione ormai al limite e alla soglia del disastro ambientale irreversibile.
Quello che ci proponiamo ora è seguire Wenning passo per passo nell’analisi delle sue proposte per ciò che riguarda varroasi e peste americana. Per ragioni di spazio ci limitiamo a queste due patologie dell’alveare. E’ da notare che nella maggior parte dei casi non si tratta di novità in assoluto, quanto piuttosto di un cambio di mentalità in corso che si sta orientando, nel medio e lungo periodo, verso la ricerca di pratiche apistiche industriali nelle quali i trattamenti di qualsiasi natura siano tendenzialmente eliminati. In alcuni casi troveremo anche sorprese notevoli; e comunque è un’occasione per verificare il punto al quale sono arrivati gli americani nel trattamento delle malattie delle api.
Ad incominciare dalla Varroa destructor. Qualunque siano le procedure che gli apicoltori usano per combattere questo parassita, non esiste alveare dove non sia presente, sottolinea Wenning; e “infatti non c’è modo di liberare un alveare da questo acaro se non distruggendo la colonia di api con lui”. Questo è il punto centrale, soprattutto ora che l’acaro ha già sviluppato resistenza sia al fluvalinate che al coumaphos: “Gli apicoltori devono imparare a convivere con questa pestilenza, conducendo gli alveari in modo tale da minimizzare sia la presenza del parassita che l’impatto economico”. I trattamenti alternativi (timolo, acido formico, ecc., sembra che negli U.S.A. non sia utilizzato l’ossalico) hanno un’efficacia significativamente più bassa, con tutte le conseguenze facilmente deducibili per l’apicoltura professionale, e nel tempo nessuno può escludere che possano provocare microevoluzione esattamente i pesticidi ed gli antibiotici. (Anzi, aggiungiamo noi: alcune delle difficoltà attuali in Italia a controllare la varroa utilizzando solo timolo ed ossalico è probabile che nascano non da forme di resistenza vere e proprie ma comunque da modificazioni comportamentali della varroa.) Ma la sorpresa vera è che non ci aspetteremmo mai come esempio di causa di microevoluzione proprio la pratica apistica considerata in assoluto più sana, a conferma del fatto che, nelle procedure di controllo della varroa, probabilmente siamo poco più in là del grado zero: “Poiché la varroa predilige fortemente riprodursi dentro le celle maschili dell’apis mellifera, alcuni apicoltori hanno iniziato sistemi che usano la covata maschile come trappola, metodi nei quali telai di covata maschile sono rimossi da un alveare e congelati al fine di uccidere l’acaro con il suo ospite”. Wenning riporta anche una variante di questo metodo poco conosciuta ma simpatica: poiché l’acaro viene ucciso ad una temperatura più bassa di quella necessaria per uccidere la pupa maschile, sono stati costruiti telai con celle maschili ed elettrificati in modo tale da essere riscaldati fino ad una temperatura sufficiente ad uccidere l’acaro ma non la pupa. Questa procedura non è stata fino ad ora applicata nell’apicoltura professionale per i suoi altissimi costi in lavoro, però la variante elettrificata è estremamente interessante e potrebbe trovare sicuramente applicazioni industriali, se la ricerca si sviluppasse anche nella sua direzione.
Il problema, precisa inaspettatamente Wenning, è che questa tecnica ha un aspetto negativo messo in evidenza “saggiamente” da Hoopingarner (2001): “Ogni generazione di covata maschile rimossa selezionerà quegli acari che preferiscono la covata femminile. Quanto più la selezione sarà forte, tanto più la direzione sarà opposta a quella che all’apicoltore piacerebbe che fosse la fine della relazione fra ospite e parassita. Per esempio nell’Apis cerana la varroa si nutre solo di maschi ed ignora la covata femminile, e la colonia sopravvive.” E’ una sorpresa non gradita e inaspettata: controllare la varroa utilizzando telaini trappola di covata maschile produce una microevoluzione che va nella direzione esattamente opposta a quella nella quale si dovrebbe andare, ed aggrava enormemente il problema. Gli abbiamo dedicato più spazio di quello che merita perché è estremamente significativa della complessità del problema.
Poi l’autore passa in rassegna velocemente e senza dargli troppa importanza i risultati attuali della ricerca più avanzata di un’ape resistente alla varroa, come comportamento igienico, autodifesa dall’acaro, schemi stagionali di allevamento della covata, uso delle celle femminili non standard, attrazione dell’acaro verso alcuni tipi di covata, trappole, ecc., sottolineando i vari progressi fatti con risultati significativi soprattutto nell’ape russa e che forse si potrebbe arrivare ad un’ape resistente alla varroa seguendo la strada che ha percorso Padre Adam nella produzione della Buckfast. Tuttavia, conclude Wenning, fino a che un’ape ampiamente resistente (e in Italia potremmo aggiungere: fino a che non avremo trovato una ligustica resistente) alla varroa, “gli apicoltori dovranno contare su altri mezzi per combattere questo acaro distruttivo”.
E poiché non c’è altra strada per “liberare un alveare da questo acaro se non distruggendo la colonia di api con lui”, Wenning propone due soluzioni: 1) trattare solo quando necessario usando al minimo indispensabile i trattamenti chimici e alternando il più possibile le varie sostanze usate; 2) gestire gli alveari spopolandoli in autunno dopo l’ultimo raccolto e ripopolarli poi in primavera presto usando pacchi d’ape con regina. Nel primo caso vengono riportati degli studi di Ellis J. (2001), secondo il quale è necessario intervenire con la chimica quando nella tarda estate o nel primo autunno la popolazione di varroa in una famiglia varia da un minimo di 2.500 ad un massimo di 5.000 presenze. La soglia varia dalla regione geografica e dalla situazione ambientale, e corrisponde ad una caduta naturale giornaliera di 43/60 acari al giorno, 15/35 in un test con l’etere su 300 api, e 65/90 in un test con lo zucchero su 300 api. La seconda soluzione sembra ormai molto diffusa negli U.S.A, e l’ABJ nel passato ha dedicato molti articoli a questa pratica apistica proponendola anche come molto conveniente da un punto di vista economico. E’ comunque un modo di fare apicoltura culturalmente molto lontano da noi italiani; e ci risulta che in Italia sia usato solo in piccolissima parte, per il costo ancora troppo elevato dei pacchi d’ape e perché non si riesce ad arrivare in tempo al raccolto. Nel futuro, però, potrebbe avere un’importanza molto più grande dell’attuale, soprattutto all’interno delle singole aziende. Comunque è significativo che gli americani stiano cercando una strada che elimini completamente i trattamenti: è questa? Forse nessuno lo sa, però la stanno cercando.
Come si vede, non siamo in presenza di novità nelle soluzioni, ma la novità nell’approcio è notevole, anche per noi italiani: la conclusione è che per ora, tranne la spopolazione autunnale, non esiste pratica apistica di controllo della varroa che non provochi microevoluzione. Se non bisogna ripartire non proprio da zero, comunque è da poco più in là; e chi arriva oggi a queste conclusioni è l’American Bee Journal, cioè la cultura apistica media degli Stati Uniti d’America.
Non meno inquietante è la conclusione per la peste americana; anche perché l’uso massiccio di antibiotici aveva abituato a considerarla molto meno pericolosa della varroa. Ma ora che gli antibiotici non funzionano più, “un caso attivo di peste americana è senza dubbio una delle cose peggiori che possano succedere a un apicoltore, dopo il furto, la distruzione dagli orsi, dai tornadi, dal fuoco o da altre calamità della natura”. Diamo per scontata la conoscenza della dinamica della malattia e della necessità di prevenirla con corrette pratiche apistiche, per andare al nocciolo della questione: per Wenning quando ci troviamo di fronte ad un caso di peste americana l’unica soluzione ragionevole è la distruzione di tutto il materiale infetto. Non solo, ma apre una polemica estremamente significativa nei confronti di Taber, un’altra firma molto prestigiosa dell’ABJ, un ricercatore molto conosciuto ed affermato anche come uno dei padri della ricerca di un’ape resistente alla peste americana. Bisogna leggere fra le righe di ciò che si dice e ciò che non si dice, a proposito di questa ricerca; e confrontarlo con la risposta di Taber sul numero successivo dell’ABJ per rendersi conto che su questa patologia le cose siano molto, ma molto più complicate di come si tende a credere, o far credere.
Wenning non dedica una parola all’attuale ricerca di linee di api resistenti alla peste americana, e, citando Taber, si limita a dire che “solo gli apicoltori con più esperienza dovrebbero cercare di lavorare verso questa forma di resistenza a causa dei possibili effetti dannosi sugli altri apicoltori i cui alveari potrebbero essere infettati a causa della presenza di apiari ospedali nelle vicinanze dei loro alveari sani”. E’ chiaramente una polemica pretestuosa; e francamente, poiché Wenning non è né sprovveduto né così disinformato da non conoscere le ricerche in corso su un’ape resistente alla peste sia negli USA che in altri paesi, come Argentina, Cile, ecc., siamo rimasti molto perplessi, spaesati, frastornati: ma perché? In un articolo successivo, sempre sull’ABJ, dal titolo “Peste Americana”, Taber, naturalmente non citando Wenning, ripercorre brevemente la storia delle vicende legate alla peste americana negli USA durante gli ultimi 100 anni, rivendica di essere uno dei padri delle ricerche in corso, ricorda di aver iniziato già nel 1980, a seguito delle scoperte di Walter Rothenbuhler, una propria ricerca e ci dice che “usando l’inseminazione artificiale fu abbastanza veloce sviluppare api che disopercolassero e rimuovessero la covata morta in 24 ore. Queste api poi furono testate con la peste americana e mostrarono che potevano ripulirsi dalla malattia molto rapidamente. Il mio metodo”, continua Taber, “era tagliare una piccola parte di covata morta, circa due pollici per due pollici, metterla in un sacchetto di plastica, e poi nel freezer per 24 ore prima di metterla nell’alveare da testare. Allora io stabilii che le unità testate che pulivano la covata morta in 24 ore erano resistenti alla peste americana.” Poi inaspettatamente Taber conclude, lapidario, “questo era un errore”, e non aggiunge altro.
Perché era un errore? C’è dell’altro, oltre al fatto che sono caratteristiche recessive, come Taber ci dice che lo stesso Rothenbuhler aveva scoperto, ma “sfortunatamente questa informazione fu largamente ignorata per molti anni”? Comunque sia, è estremamente significativo, come Taber continua: “Dopo di allora la dott.ssa Maria Spivak dell’università del Minnesota ha raffinato la mia tecnica ed ha usato azoto liquido per congelare ed uccidere la covata”. Nient’altro, ed è talmente chiaro che qualsiasi nota a margine sarebbe inutile retorica.
A chiarire ancora, se ci fosse qualche dubbio residuo, Taber conclude il suo intervento scrivendo: “E’ imperativo che tutti gli apicoltori sappiano cosa c’è da sapere e siano in grado di riconoscere la peste americana (know and recognize AFB). Discutetelo nelle vostre associazioni ed incontri nazionali.” Quindi alla fine, al di là della polemica, la posizione di Taber è la stessa di Wenning; e si può concludere che l’indicazione dell’ABJ è che siamo tornati ad esattamente prima dell’uso degli antibiotici con una malattia molto più virulenta ed aggressiva a seguito della selezione del batterio e dell’indebolimento dell’ape, e che per ora non ci sono altre possibili strade ipotizzabili anche per il prossimo futuro se non: 1) pratiche apistiche corrette e rispettose del’animale, che lo rafforzino invece che indebolirlo; 2) essere in grado di riconoscere la malattia prima che possa diventare causa di contagio per saccheggi od altro; 3) distruzione con il fuoco o disinfettazione con tecniche sicure al 100%.
Come dicevamo all’inizio, la novità non consiste nelle proposte ma nella rivoluzione totale delle indicazioni che vengono dall’ABJ. Il modo di fare apicoltura degli ultimi 50 anni ha già condotto al disastro ambientale ed è imperativo che sia le pratiche apistiche sia la ricerca siano orientate ed indirizzate da principi etici di natura radicalmente diversa: ciò di cui c’è bisogno in primo luogo è un atteggiamento responsabile verso l’animale e l’ambiente. Con il solito stile all’americana che ha bisogno di parole d’ordine facilmente comprensibili in una società fortemente massificata, “Fare apicoltura con un ridotto uso della chimica” viene ridotto a sei semplicissimi principi:
“Principio della prevenzione. La prevenzione di un problema potenziale si deve preferire alla cura di un problema costituito.”
“Principio della preferenza. Un metodo di intervento non chimico deve essere preferito ad un trattamento chimico.”
“Principio della tolleranza. Se una malattia o una pestilenza presente in un alveare può essere gestita solo con trattamenti chimici, la sua presenza deve essere tollerata se è sotto il livello dell’impatto economico.” E precisa: “La peste americana non deve essere tollerata”.
“Principio della necessità. Un trattamento chimico deve essere tollerato solo dopo che il fallimento dei metodi naturali ha mostrato la sua necessità.
“Principio dell’alternativa meno tossica. Una sostanza più tossica deve essere evitata quando esiste un’alternativa meno tossica.”
“Principio della precauzione. Quando un trattamento chimico di un problema costituito minaccia la salute umana o l’ambiente, si deve avere un approcio precauzionale.
Nel futuro, conclude Wenning, potrà esistere ancora l’apicoltura e sarà un’attività economicamente sostenibile solo se gli apicoltori sapranno prevenire invece di curare e, se necessario, curare solo con trattamenti naturali. L’uso della chimica deve essere considerata un’eccezione fino a scomparire nel più breve tempo possibile.
Sembra che la montagna abbia partorito un topolino, ma non è così se si pensa a come si muovono gli americani: hanno bisogno di preparare il terreno con slogan molto semplici, e che spesso a noi sembrano scontati e banali se non stupidi; e una volta trovati, iniziano campagne di opinione inesorabili fino a che non sentono che il comportamento della nazione è uniforme: dopo si muovono, e quando hanno scelto una direzione, nel bene e nel male sono conseguenze di non poco conto per tutti. L’impressione è che l’ABJ si stia impegnando in una nuova crociata; e fra le sue firme più prestigiose, Wenning è maestro di quella “predicazione” che precede ed accompagna i cambiamenti strutturali delle società di massa, nelle quali non interessano poche avanguardie ma l’accordo della stragrande quantità (in questo caso) degli apicoltori. L’impressione è poi confermata dai numeri successivi già usciti, nei quali il martellamento a tappeto è già dato di fatto: ridurre fino ad eliminare la chimica è la parola d’ordine del futuro, se vogliamo conservare la possibilità di fare un’apicoltura economicamente sostenibile.
Le conseguenze sull’apicoltura professionale saranno grandissime ed ancora in larga parte inimmaginabili.