articoli e traduzioni di apicoltura
I Manfredini
di Gabriele Milli
Uscito in Lapis
In qualsiasi impresa trovare un attacco talmente buono che sia l’inizio di una strada da seguire poi come un filo che dal suo gomitolo si srotola, è sempre difficile; ma particolarmente difficile è trovarne uno ben calibrato sull’argomento in questione: una breve sintesi che colga il nocciolo delle vicende apistiche, passate e presenti, della famiglia Manfredini. Difficile, perché parlare di numeri, di questa o quella tecnica di gestione degli alveari, dei mezzi di trasporto e del tipo di gru, della smielatura o della pallettizzazione, della media produttiva per arnia, ecc., rischia di non afferrare il cuore della questione. Certo, quelli sono particolari tutti importanti e molto interessanti, ma c’è ben altra sostanza; e ciò che importa, in questo caso più che in altri, è la prospettiva, l’unicità sullo sfondo della quale ciascun particolare trova la sua collocazione e il suo sviluppo in un prima e in un dopo. Direi quasi che, se mi fosse consentito, qui in particolare ciò che veramente conta è il sentimento, o il carattere della passione famigliare per l’apicoltura, lungo tre, se non quattro, generazioni: questo è il cuore che rimane identico, e scorre dal suo inizio come un fiume dalla sua sorgente.
La prendiamo con un taglio ed una altezza che possono sembrare non appropriati. Alla fine si parla solo della storia apistica di una famiglia; ma deve pur esserci un perché particolare se l’apicoltura professionale oggi, e non ieri, l’ha posta sotto i riflettori della sua scena più prestigiosa. E poiché l’apicoltura professionale è fatta da aziende che cercano per prima cosa l’utile, vuol dire che oggi qui si intuisce un utile particolare. Forse, se è vero che la storia procede in avanti con balzi di tigre nel passato, nella loro storia c’è qualcosa di cui l’apicoltura ha bisogno per ritrovarsi, in un momento di crisi: per riscoprire, in una sua origine e in un suo percorso, la consapevolezza di una identità talmente forte da poter essere, nel presente, l’istinto e l’orizzonte da seguire nel futuro. Anche se fosse solo in parte, come d’altra parte non può che essere, varrebbe la pena tentare e ripercorre per sommi capi le vicende apistiche dei Manfredini. Noi ne siamo assolutamente convinti; ed è per questo che, fin da quando abbiamo iniziato la nostra piccola avventura apistica, ci sono sempre interessati molto. Li abbiamo osservati, per quanto possibile, da lontano; e abbiamo riflettuto spesso su quanto siamo riusciti a sapere di loro, sia attraverso quello che si dice nell’ambiente, sia soprattutto, attraverso i racconti della “Zia” Clementina.
Vediamo di trovare qualche bandolo della matassa. L’apicoltura Manfredini inizia nei primi anni ’20 quando Pio Manfredini di Pavullo in provincia di Modena, costruisce le prime arnie razionali a favo mobile. Pio era il padre di nove figli, ma noi ricordiamo solo quelli che poi hanno un interesse per l’apicoltura: Agostino, Clementina, Giustiniano, Mario e Paolo. La passione era già di famiglia, infatti il padre di Pio praticava l’apicoltura su bugno rustico; ed era il momento magico nel quale l’apicoltura, in Italia, da preistoria diventava storia. Iniziavano ad essere conosciute sia alcune importanti esperienze soprattutto statunitensi sia alcuni fondamentali pionieri dell’apicoltura italiana con un ruolo mondiale, fra i quali ci limitiamo a ricordare l’Apicoltura Penna di Rastignano e l’Apicoltura Tortora di Ozzano dell’Emilia, entrambi alle porte di Bologna. Diventa chiaro, e non a caso soprattutto nella fascia pedemontana a sud e a nord di Bologna, che l’apicoltura, oltre ad una passione poteva essere anche un’interessante attività economica. I nomi dei coetanei, più o meno di quegli anni sono noti; ci limitiamo ai Piana di Castel San Pietro e a Caroli di Dozza Imolese, per dire solo i più prestigiosi. Alcuni non ci sono più e gli altri hanno quasi tutti hanno abbandonato l’allevamento, a testimoniare che ancora più delle altre professioni l’apicoltura richiede ancora oggi una passione rara ed una professionalità particolare e non comune: non basta esserci nati.
Pio Manfredini inizia subito un’apicoltura professionale: oltre a migliorare continuamente la propria conoscenza dell’animale sul campo e a sperimentare in proprio, studia, partecipa a corsi di formazione, entra subito in contatto con le esperienze produttive più avanzate; e gestisce per tutta la vita, con notevole successo anche commerciale, un’azienda che conduce un’apicoltura essenzialmente stanziale collinare e montana. Pratica però, fin dall’inizio, un piccolo nomadismo locale in pianura, per ampliare la propria offerta di mieli pregiati. La produzione è diversificata al massimo: oltre al miele, già dal 1930 produce api regine di notevole qualità e pappa reale, produzione allora rarissima. Siamo nello standard delle poche migliori aziende della sua generazione, con forse la differenza di una caratterizzazione più montana rispetto agli altri, e con uno stile personale più appartato e concentrato sull’azienda e sulla famiglia e con poca simpatia per i palcoscenici; differenza che avrà la sua importanza nel carattere delle aziende dei figli. Da non dimenticare infine è l’opera costante di divulgazione delle conoscenze apistiche, un vero e proprio impegno che contribuirà non poco allo sviluppo dell’apicoltura della zona. Si potrebbe dire con una battuta, stile modenese puro, rafforzato dalla montagna: molto arrosto e poco fumo, molto impegno nell’azienda, ma anche grande cura della famiglia vissuta come il valore fondamentale. Tipicamente emiliano, in particolare reggianomodenese: passione per il lavoro e forti valori che tendono ad unire invece che a dividere (l’unità alla fine supera sempre le differenze), una continua ricerca nell’innovazione sempre saldamente radicata nella tradizione, forte impegno sociale, spesso all’interno di problematiche politiche o religiose; è il carattere dell’Emilia migliore, le fondamenta del miracolo Emiliano; è il carattere del padre che avrà le sue conseguenze non piccole nell’attività dei figli.
E’ un aspetto importante non per dare colore, vendere bene una storia, e imbellettare di buoni sentimenti che poi dietro le quinte lasciano intravedere intrallazzi da furbetti di bassa lega, ma perché le aziende le fanno gli uomini; anzi: sono lo specchio più completo degli uomini. E se non si mette a fuoco bene il carattere del padre, non si riesce poi a capire bene perché l’apicoltura Manfredini è di così straordinario interesse. Intanto diciamo che oggi sono 6 grandi aziende apistiche, più due piccole attività collaterali ma significative: tutte autonome e indipendenti l’una dall’altra ma così unite fra di loro da poter essere quasi considerate un’unica azienda. La famiglia, anche ora che Pio Manfredini non c’è più, è un valore così forte da sembrare, a sentire come ne parlano, se ci è permessa la battuta, un consiglio di amministrazione; anzi: meglio ancora, perché l’aiuto reciproco, al bisogno, prevale sull’utile individuale. Chi non vorrebbe avere rapporti aziendali simili con un gruppetto di altre imprese, tutte indipendenti fra loro e tutte solidali al bisogno, con tutti i dissensi e i contrasti del caso, ma con l’unico legame della stima e della fiducia reciproca e nel rispetto delle differenze del carattere “aziendale”? Prima ed oltre la grandezza individuale, è la loro grande forza: la stessa che le ha fatte crescere un po’ appartate e di lato rispetto al filone apistico professionale più sul palcoscenico, e le fa essere oggi la più grande, la più completa e forse la più ricca di futuro realtà apistica italiana. E’ l’eredità del carattere del padre, che oggi scorre ancora nei nipoti. Ma seguiamo un po’ per sommi capi la storia.
L’azienda del padre fu continuata senza interruzioni dal figlio Paolo, che forse ancora oggi conduce l’attività in maniera più simile al padre. Paolo iniziò a lavorare con le api giovanissimo e, se da un lato è il figlio che eredita più direttamente l’amore e i piccoli segreti del padre, già con lui l’attività si trasforma: aumenta di molto il numero delle arnie ed inizia a praticare un discreto nomadismo sull’acacia e, in questo uno dei primi, sull’eucalipto. “E’ molto probabile”, ci dice la Clementina, “che se Paolo non avesse continuato, né io, né Giustiniano e Mario sarebbero tornati. Quando abbiamo sentito il richiamo della vita all’aria aperta a contatto diretto con la natura e dell’allevamento delle api come la nostra professione naturale, ci siamo riagganciati a lui.” Infatti in un primo momento gli altri figli abbandonano l’apicoltura, come attività principale, anche se le cura delle api viene continuata da tutti come interesse collaterale, diciamo per passione. Ma la svolta vera, quella che conduce l’Apicoltura Manfredini ad essere una delle più interessanti realtà apistiche italiane di oggi, è una scintilla dovuta al caso.
Il figlio Agostino decide di dedicarsi all’impegno religioso, e per la sua formazione teologica sceglie la città di Viterbo. Il Padre va a trovarlo e Agostino, che condivide con tutta la famiglia la passione per l’apicoltura, gli dice: “Guarda che le api da queste parti fanno 3/4 melari di miele. Perché non mi porti un paio di famiglie?” Il padre è incredulo, guardando l’apparente deserto nettarifero che circonda il seminario; ma per un paio di famiglie … il figlio si accontenta. Così, per la passione di Agostino e per l’utilità di avere un po’ di miele in seminario, inizia l’avventura maremmana dei Manfredini. Fra l’altro Padre Agostino gestisce ancora oggi alcuni alveari ed è una delle due piccole attività apistiche collaterali ma significative: una media produttiva di 80 kg annui ad arnia ed una percentuale di perdite inesistente, un risultato professionale che fa impallidire i fratelli. Il padre ormai ha una certa età, e non può pensare di abbandonare Modena; ma l’esempio di Agostino non può non stuzzicare i fratelli. Si sa, gli apicoltori assomigliano molto sia ai pecorai di una volta che ai cercatori d’oro. Nomadi e un po’ avventurieri, se snasano che in una zona possono esserci pascoli interessanti, non badano certo ai km. Il nettare e il polline sono il loro oro; e così inizia il peregrinare da Modena alla Maremma, che scoprono per primi.
Giustiniano dirigeva un’azienda di ceramica nel modenese e Mario faceva il ragioniere. Prima si prova, poi si vede che in realtà, rispetto al modenese, zona per altro non malvagia, ci possono essere dei vantaggi. Non solo in nettare, ma anche, cosa non secondaria, in polline. La stagiona apistica può essere anticipata di un mese abbondante, il che è fondamentale, soprattutto se unito al fatto che settembre, ottobre e anche novembre non danno eccedenze da raccolto, ma permettono uno sviluppo autunnale delle api sconosciuto al Nord. Non sempre va bene: quando il raccolto primaverile è scarso e l’estate siccitosa fino a tutto settembre, può anche andare molto male; ma i vantaggi, nella media di più anni, compensano ampiamente gli svantaggi. Così i tre fratelli modenesi, ciascuno per conto proprio e alla sua maniera ma uniti dalla famiglia, partono alla scoperta di un’apicoltura che intravedono molto più vantaggiosa anche se per loro ancora sconosciuta. E, soprattutto, alla scoperta di un territorio che oggi conoscono meglio delle loro api. La conoscenza dell’animale che hanno dentro per istinto si evolve in una conoscenza del comportamento dell’ape nel loro nuovo territorio talmente profonda da permettergli di fare un’apicoltura unica. Ed è un obiettivo che non si raggiunge in una stagione.
Così inizia l’avventura, da veri esploratori. Prima un apiario, poi due, poi tre …..Si prova da una parte, va bene; si prova da un’altra, non funziona. Si sposta di poco, si cambia zona, ci si allarga sul territorio, la collina, lungo il mare, la montagna… Anno dopo anno, partire da Modena arrivare in Maremma, lavorare tutto il giorno, mangiare panini o al sacco, dormire sul camion, e poi ripartire con il lavoro, poi magari piove e si deve stare fermi, oppure il camion si impantana, e magari hai anche fame, freddo, ecc, Certo, ci sono anche i camion carichi di melari stracolmi, o il carico di nuclei che porti ai mercati del nord. Ed è romantico dirlo, e fa anche sognare; ma farlo ogni giorno giorno dopo giorno, ogni anno anno dopo anno per decine di migliaia di chilometri, anche se alla fine è un successo, quanti sarebbero disposti a pagare questo prezzo? Possono sembrare a prima vista anche fortemente conservatori, e lo sono anche; ma in realtà sono delle vere e proprie avanguardie; e come tutti i veri innovatori, a differenza dei venditori di fumo, improvvisatori ed avventurieri, sono profondamente radicati nella tradizione e ponderati nell’innovazione. Non improvvisano una rivoluzione, la costruiscono giorno dopo giorno, spesso all’ombra dei più, anno dopo anno, concentrati sulla luce dell’orizzonte. E’ naturale che gente così stia a disagio nei salotti dell’apicoltura più alla moda, magari bravi non tanto con le api quanto a sfruttare al massimo questa o quella situazione politica o di mercato. E’ un altro stile: è il passo lento, costante, solido del montanaro modenese che non demorde, da scarpe grosse e cervello fino.
E piano piano, passo dopo passo, il successo arriva; prima qualche centinaio di alveari, poi qualche migliaio, poi ad oggi tante migliaia quante è difficile immaginare in Italia. Prima qualche appoggio dove dormire un po’ e magari farsi una doccia; poi una qualsiasi base per appoggiare il materiale; poi un piccolo capannone ma la sede rimane a Modena; poi la scelta definitiva: tutto in Maremma, tranne Paolo che ancora ha il laboratorio sia a Modena che a Viterbo. E questa avviene non solo perché diventa fisicamente impossibile andare e venire ed economicamente vantaggioso spostare tutto in Maremma, ma soprattutto perché la cura delle api con l’andamento climatico stagionale su un’area che si estende su un raggio di 80/90 km da Viterbo richiede di essere sul territorio. A grosse linee significa spostarsi, facendo perno sul lago di Bolsena, dalle porte di Roma fino a Perugia e Grosseto, con centinaia di apiari che vanno da lungo il mare fino alla montagna, ed ambienti che vanno dalla macchia mediterranea fino ai calancheti ricchi di sulla, i fondo valle coltivati, le colline incolte, i boschi di castagno, i prati del medio alto Appennino, ecc. E tutti sono pascoli buoni, se uno impara a conoscere bene l’ambiente, a sfruttare ogni microclima per quello che di meglio può dare in questa o in quella stagione. Per essere dei modenesi nati e cresciuti nella monotonia stagionale e ambientale dell’Appennino emiliano, si sono adattati non male. Dice ancora Clementina, l’allevatrice della famiglia: “Quando i miei fratelli sono andati in Maremma”, e sottolinea per primi, “si sono ricordati dell’apicoltura difficile che faceva nostro padre in montagna: l’apicoltura difficile dei nostri Appennini dove i Manfredini sono nati apisticamente, è stata la memoria e l’istinto che gli ha permesso di modellare la loro nuova impresa apistica ai difficilissimi ambienti della Maremma, portandoli a sfruttare tutto il territorio dal mare fino a mille metri per quello che ciascun microambiente può dare.”
E questa, direi, è la prima grande lezione. L’apicoltura stanziale è sempre esistita, ma negli ultimi diciamo 30 anni, per grande merito anche di alcuni pionieri che hanno contribuito in maniera decisiva al rinnovamento apistico italiano, l’accento è sempre caduto sul nomadismo. Non è un giudizio di valore, è la descrizione di un periodo storico: il nomadismo è stato considerato negli ultimi decenni la condizione per fare un’apicoltura professionale di successo. La formula della riuscita: mordi e fuggi; sfrutta al massimo una fioritura di pochi giorni, e poi corri su un’altra spostando nel più breve tempo possibile il numero più alto possibile di alveari, e la distanza è tutto sommato secondaria: dal Trentino in poche ore si spostano centinaia e centinaia di alveari all’arancio in Calabria e in Sicilia, poi si va a fare l’acacia nel novarese poi l’eucalipto a Latina, poi il trifoglio in Campania, poi la melata in Piemonte, e per chiudere l’edera in centro Italia. Si esagera un po’ per dare l’idea, ma è così: è il modello degli Stati Uniti d’America che la fa da padrone, anche in apicoltura. E’ il modello di cui c’era bisogno in quegli anni; e non solo era inevitabile: è stato anche un rinnovamento tecnologico che ha portato ad una delle apicolture migliori del mondo. C’è un limite, però, sia nell’animale che nell’uomo.
Non è solo un problema, come dice Mario, che: “almeno la notte ora dormo a casa”. E Mario, che fra l’altro conosce molto bene l’America latina, è il più americano di tutti. Esagerare per esagerare: se uno pensa in grande, tranquilli che Mario pensa più in grande, sempre e su tutto; e da bravo modenese, l’innovazione si fa sempre con i conti alla mano. Se c’è un limite di numeri nel nomadismo, lo stesso limite è spostato molto, ma veramente molto più in là nell’apicoltura stanziale; anzi: nell’apicoltura stanziale l’unico limite è in quante famiglie riesco a tenere sane, ovvero in quanto personale di fiducia posso disporre (famigliari o meno); poi ci sono territori migliori o peggiori, ma sono pochissimi i territori che non possono rendere qualcosa. Tanto per fare l’esempio di Mario: diciamo tre squadre di due persone con mezzi tutti quattro per quattro, che lavorano tutto l’anno, tutti i giorni dell’anno in cui è metereologicamente possibile alle api o agli apiari, più altri che fanno da supporto logistico in azienda. E perché non quattro squadre o cinque? Dov’è il limite? Solo nel materiale umano di fiducia, anche la distanza dall’azienda sarebbe in qualche modo superabile. Niente da dire, solo da fare; e fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E il mare, in questo caso sono i costi di produzione e le quantità complessive prodotte. Parole di Mario: “Devo riuscire a stare sul mercato internazionale contando su 10 centesimi di differenza con il miele cinese sbarcato al porto di Genova”. Quanto miele prodotto con il nomadismo riesce a reggere questo prezzo?
Personalmente rimpiango di essere ormai troppo vecchio per provarci, per cui devo ripiegare su un altro modello. Ma, per l’apicoltura, sarà questo il salto di tigre nel passato di cui ha bisogno la storia apistica di oggi?: direttamente da Pio Manfredini di Pavullo negli anni 30 e dall’apicoltura appenninica di ieri, la direzione per il 2000, attraverso l’esperienza maremmana di Paolo, Giustino e Mario? Potrebbe anche essere, aggiungendogli una forte diversificazione su tutti prodotti dell’alveare, come già i Manfredini stanno facendo. Perché no: invece dello sfruttamento intensivo dell’animale, con tutte le conseguenze che sappiamo, lo sfruttamento modulare delle caratteristiche microclimatiche dei vari territori, seguendo l’andamento stagionale dal mare fino a quasi mille metri. La riflessione oggi è d’obbligo, e i Manfredini sono un bel pretesto: conti alla mano, a tavolino; poi la scelta il più delle volte è determinata più dal carattere della persona che dal bilancio; perché sul bilancio l’incertezza, a tavolino, sarebbe poca. L’unico dubbio è: quanti hanno l’istinto e l’esperienza per valutare apisticamente un microambiente come fanno i Manfredini?
Non solo. Quanti hanno l’istinto all’attività di impresa e l’esperienza del fare azienda che hanno i Manfredini, e in particolare Giustiniano? Perché se oggi le aziende Manfredini sono fra le poche che sanno reggere il mercato internazionale, questo risultato lo sanno ottenere senza alcun finanziamento pubblico. Dice Giustiniano: mi costa di meno produrmi tutto da solo che acquistare arnie, macchinari, ecc., con i finanziamenti, soprattutto se considero il tempo perso per domande, collaudi, ecc. E tutte le aziende si fanno tutto da sole, ottimizzando i tempi morti dell’anno: non solo smielatura, ma anche falegnameria, officina per piccole riparazioni agli automezzi e lavorazione del ferro, produzione di celle reali e un’azienda Manfredini di produzione di api regine, con la quale però vorremmo chiudere il nostro breve viaggio, per il ruolo particolare che svolge la Clementina in famiglia. E la cosa che salta subito agli occhi è che sono sì grandissime aziende, ma non c’è niente di sproporzionato o sprecato: tutto è sempre nella giusta proporzione che serve al ciclo produttivo. Se, come il caso di Mario, ho un impianto di smielatura con il quale una persona sola mi smiela 50 ql. al giorno, è perché c’è un parco api alle spalle tale per cui deve essere usato non per qualche giorno all’anno. In altri termini, non ti da a colpo d’occhio quella sensazione di soldi buttati via perché tanto, chi se ne importa, erano pubblici e gli impianti vengono utilizzati al 20 % delle loro potenzialità, ma di qualcosa perfettamente calibrato alle necessità produttive. Ma se la grandezza e la potenza dell’azienda di Mario è qualcosa che bisogna solo vedere per credere, altrettanto vedere per credere è la perfezione dell’azienda di Giustiniano: è talmente ordinata, armonica, misurata, fluida, precisa, corrispondente, senza né sprechi né lesinature , che ti fa venire in mente non l’apicoltura ma l’azienda assoluta, pensata e ripensata continuamente per produrre e stare sul mercato nel modo migliore. Potrebbe produrre qualsiasi cosa, anche computer o macchine utensili, e lo potrebbe fare altrettanto bene. E’ incredibile: ha la perfezione dell’organizzazione totale di una biblioteca, e lo dice uno che nel suo piccolo il mestiere “biblioteca” lo conosceva. E se Mario e Giustiniano eccellono uno nella grandezza e l’altro nella perfezione aziendale, Paolo primeggia nella cura delle api. “Di noi quattro” ci racconta ancora la Clementina, “nella cura delle api è lui il migliore. C’è chi dice che ogni tanto si mette a parlare con loro, e potrebbe anche essere vero. Certo è che, metodico, ordinato e preciso, rispetta le api fin nei più piccoli particolari e nei loro ritmi naturali e stagionali. Forse leggermente più contenuto nei numeri rispetto a Giustiniano e Mario, di sicuro però è quello che ottiene i risultati migliori ad arnia.” Credo che, ciascuno alla sua maniera, siano tre veri grandi maestri dell’apicoltura stanziale, e poter farli diventare un’azienda sola sarebbe la perfezione apistica assoluta. L’unica cosa che gli manca, se potessi permettermi, è stare di più nella comunicazione: il troppo appartati può essere anche un difetto. Ma non è sicuramente un difetto mettere la cura delle aziende prima dello strombazzaticcio da piazzisti, quasi indecente, che spesso si vede in giro al mercato.
Anche in questo, modenesi: un’azienda è attività di impresa, tutto il resto viene dopo. E questa è la seconda grande lezione dei Manfredini, ed oggi credo che vada sottolineata in modo particolare. Si esce dalla crisi non perché Papà Stato ci mantiene, e così contribuiamo tutti al suo fallimento, ma perché le aziende sanno fare il loro mestiere: prima sono aziende, e vivono perché fanno attività di impresa; dopo sono aziende apistiche, e sanno fare apicoltura. Solidali sì, ma ciascuna alla sua maniera e ciascuna con le sue gambe, secondo la lezione che Pio Manfredini ha dato ai suoi figli. Va detto e va sottolineato in modo particolare oggi, in un momento nel quale le imprese apistiche sembra che inizino ad invidiare l’aumma aumma di quasi tutte le altre imprese agricole: tranne casi molto rari, mantenute dallo stato e intrallazzate alla corte di questo o quel potere. Veri e propri pensionati a trent’anni, talmente abituate a fare bilancio perché c’è il premio, il finanziamento, il contributo, il risarcimento danni, il mercato protetto, ecc, che hanno anche l’arroganza di pretendere il privilegio non meritato, indifferenti al fatto che le imprese degli altri settori glielo pagano. Vogliamo che anche l’apicoltura diventi una piagnucolosa palla al piede per il paese come quasi tutto il resto dell’agricoltura? Ha senso ricordare Pinocchio nel paese della cuccagna? Se non vogliamo questo, l’esempio da seguire oggi sono le aziende Manfredini. Perché non dirlo? se lo meritano: anche in questo sono fra le migliori.
E se oggi una delle necessità più urgenti è imparare a specializzare al massimo ma anche diversificare per affrontare tutti i segmenti del mercato e fare sistema con altre aziende per avere la forza sia della qualità che dei numeri per stare su mercati differenti, anche su questo le aziende Manfredini sono un esempio: infatti, oltre alle tre grandi aziende da produzione di Giustiniano, Mario e Paolo, c’è anche un’azienda che commercializza al dettaglio tutti i prodotti dell’alveare, per sfruttare fin dove è possibile il valore aggiunto alla produzione che permette la filiera corta. Non a caso la sede è nel modenese e, sempre non a caso, Mario ne è l’amministratore delegato. Ma questa attività, pur con tutta la sua importanza commerciale che è facilmente intuibile, apisticamente ci interessa di meno dell’attività di produzione di api regine della Clementina Manfredini. La Clementina ritorna all’apicoltura dopo il matrimonio, quando l’esigenza di dedicarsi alla cura dei figli la porta a ripensare la propria scelta professionale: perché stare tutto il giorno a lavorare fuori casa e lasciare i figli ad una baby-sitter, quando posso guadagnare gli stessi soldi curando la mia famiglia e nel tempo che mi rimane allevare api regine? Sono le possibilità che hanno i figli d’arte, e Clementina possiede la professionalità sia per produrre api regine sia per avviare un’impresa apistica, perché come tutti gli altri fratelli non solo è nata in mezzo alle api ma ha sempre aiutato il padre, che era già un ottimo produttore di api regine. E così piano piano inizia l’attività della Clementina, la quale con lo stesso istinto all’attività di impresa dei fratelli, arriva a gestire una delle più grosse aziende di produzione di api regine di qualità, con il solo aiuto del marito nel tempo libero prima e a tempo pieno poi, e dei figli man mano che iniziavano ad essere capaci di fare qualcosa nel tempo non impegnato dalla scuola. E così ogni azienda è super specializzata, ma la diversificazione è totale.
L’attività della Clementina è interessante non tanto perché continua uno dei filoni di attività del padre quanto per come lo fa. Non solo inizia l’attività con qualche decina di nuclei per arrivare a lavorare con poco meno di 1.500 nuclei di fecondazione e quattrocento arnie fisse a miele, ma, soprattutto, riesce a gestire questi numeri con una bassissima quantità di lavoro, una produttività molto alta ed un prodotto di qualità veramente molto alta. Parte dal background lasciatogli dal padre, ma poi sviluppa una propria ricerca personale ed un aggiornamento costante che gli permettono di trovare un rapporto unico con l’animale. Non è un problema di tecniche di allevamento più o meno evolute e di conoscenza dei risultati della ricerca più aggiornati, che devono esserci; è in primo luogo la crescita continua di quell’esperienza che nasce dal rapporto personale con le api, fatto innanzitutto di rispetto e di utilità reciproca e non di sfruttamento bestiale e distruzione dell’animale; esperienza che cresce nutrendosi delle piccole intuizioni luminose che vengono dalla costanza fiduciosa del lavoro giorno dopo giorno e che in veramente pochi allevatori si traduce in una continua lenta crescita di qualità sia dell’uomo che dell’animale. E’ uno scambio reciproco uomo-animale, una comunicazione particolare non codificabile e non trasmettibile, non misterica: razionale ma non razionalizzabile, che si può imparare ma non insegnare, che può sembrare mistero o magia ma in realtà è un accumulo costante di sapere di natura intuitiva, una forma del fare, un modo di vivere al quale solo i grandi arrivano; e la Clementina, la più “intellettuale” dei cinque fratelli, è l’ultimo dei grandi allevatori italiani del Novecento. Oggi che sta lentamente abbandonando l’attività, mi sento di dire che, terminando lei, le qualità dei grandi si interrompono. Spero di non offendere nessuno, ma io la vedo così: c’è un crepaccio e per ora vedo solo il vuoto. L’attività della Clementina viene continuata dalla nipote Miriam, figlia di Mario, in collaborazione con il marito Tommaso Stella. Non sarà un’eredità facile, ma un maestro migliore non potevano averlo. La stoffa e il carattere c’è, in tutti e due; e sono già una bella azienda. Noi gli auguriamo di essere all’altezza della zia, e siamo sicuri che riusciranno e che saranno di utilità per tutta l’apicoltura.
Ma la “Zia” Clementina, in un discorso generale sulla famiglia Manfredini, è centrale anche, se non soprattutto, perché, nella famiglia (assieme a Padre Agostino, precisa lei stessa) è lo stimolo costante all’unione. Tutti sappiamo che non è facile andare d’accordo fra fratelli; ma lei ha sempre lavorato per unire dove c’era la spinta a dividere. Ed ora che i fratelli iniziano a cedere il passo ai figli, la stessa opera costante di pretesto per unire la esercita con i nipoti. Non solo, ma l’apertura della Clementina verso gli altri apicoltori e allevatori in particolare è unica. Anche noi le dobbiamo qualcosa di raro. Eravamo proprio all’inizio, e mentre quasi tutti gli altri allevatori ci trattavano come merdoline piccole piccole, lei ci ha invitato subito ad andare a trovarla durante la stagione produttiva. Con lei e Gianni, suo marito, abbiamo passato un meraviglioso pomeriggio apistico; e siamo ritornati a casa con una sua intuizione sul nostro modo di lavorare, così pertinente ed acuta da essere proprio quello che ci mancava per fare il salto. La Clementina sa che cos’è un granaio, e non è di mano monca: splendido esempio di come l’apicoltura, per alcuni, sia veramente un’unica grande famiglia; il bene comune che esalta l’utile personale e il carattere di ciascuno.
Abbiamo srotolato il gomitolo con un taglio troppo “poetico”? No, non credo perché poesia nell’etimo significa fare; e i Manfredi sono, ancor più che maestri di apicoltura, creatori, maestri del fare. Alla fine si potrebbe quasi concludere che sono, più che di carattere riservato, aristocratici per merito: sanno che, la fede nel fare, come in un alveare ben governato, regge l’armonia del tutto e delle parti, e vive in un presente che viene da un passato certo e va verso un futuro che sarà la previdente creazione delle mani, mente e, perché no, del cuore. Non a caso Agostino è un teologo; e un altro fratello, Martino, che non c’è più, era un artista che ha ottenuto risultati prestigiosi nella decorazione della ceramica. Gira e rigira, alla fine sempre di “fede e poesia”, o di “creazione dal nulla”, si tratta. E così concludiamo un discorso che per ora, e per nostra fortuna, non ha conclusione. Ciascuno per il suo utile e alla sua maniera, ma uniti per il bene comune: nei nipoti continua la grande lezione di Pio Manfredini, a conferma del fatto che un buon inizio è molto più di metà dell’opera. Stavamo dimenticando la seconda piccola attività collaterale: è un progetto di azienda apistica in Africa curata dal figlio di Mario, Leonardo, con una O.N.G. Anche questo significa, bene augurando.